Fuori i cavalli dal carcere di Bollate
Per quattordici anni, lì dentro, nel penitenziario di Bollate, carcerati e cavalli si sono presi cura gli uni degli altri. Gli uni occupandosi, forse per la prima volta in vita loro, del benessere di qualcuno. Gli altri trasmettendo l’immediatezza della loro naturalità animale. Il tutto sotto il controllo e il coordinamento, più che vigile, di un operatore esperto come Claudio Villa. Un modo come un altro per contrastare l’immobilità del tempo dietro le sbarre? Certo. Ma, forse, anche qualcos’altro. Pare che più di qualche detenuto debba proprio a questa esperienza l’aver trovato, finalmente, un modo di stare al mondo accettabile e accettato. Tutto bene, dunque? Niente affatto: tutto male, invece. Perché i cavalli lì dentro, nel carcere di Bollate non ci sono più.
La notizia scuote, e preoccupa, non poco. Almeno chi, come noi, continua ostinatamente a credere che la reclusione debba essere gestita dalle istituzioni preposte in modo da perseguire il recupero sia morale che psicologico dei detenuti. Qui il discorso ci porterebbe lontano, e non è questo né il momento né la sede. Veniamo ai fatti.
Il progetto “Cavalli in carcere” è nato 14 anni fa per volontà di Lucia Castellano, allora direttrice dell’istituto di pena, e dell’allora provveditore Luigi Pagano. La finalità non era tanto quella di fornire corsi di formazione legati al mondo ippico ed equestre, quanto di favorire l’avvicinamento dei carcerati al mondo animale e alla natura in generale. Come ha spesso ricordato Claudio Villa, che di quel progetto è stato ed è tuttora l’animatore, “Il fatto che ci fosse una struttura in grado di ospitare fino a quaranta cavalli e che si potesse vederli aggirarsi nei prati che circondavano i vari edifici, stemperava l’eventuale tensione che si respirava nell’aria. Spesso abbiamo portato i cavalli durante gli incontri tra i detenuti ed i loro famigliari per fare una foto e per consentire a tutti di trarre beneficio dalla presenza dei cavalli”.
Insomma fin dall’inizio il Progetto Bollate ha assunto un punto di vista particolare: il riconoscimento del ruolo positivo che la presenza e l’interazione con i cavalli poteva avere sulle condizioni psicologiche dei detenuti. Presenza, appunto, non in funzione di una attività sportiva o di una eventuale formazione lavorativa, ma un semplice “esserci” che, però, riusciva ad emanare e a trasmettere un grande senso di serenità.
Eppure si trattava in larga misura di animali che avevano sofferto, che erano stati sottratti a corse clandestine e ad altre modalità di maltrattamento. Animali feriti, quindi, nel corpo e soprattutto nella psiche, che avevano saputo ridare fiducia alla vita, trovare il coraggio di aprire ancora una volta uno spiraglio di credito nei confronti degli uomini. Quale esempio migliore per quanti, in quelle mura, cercavano, forse una nuova modalità di esistenza?
Nel tempo poi sono arrivate le conferme di questa intuizione originaria, attraverso convegni, corsi di formazione per gli operatori degli interventi assistiti, collaborazione e studi di ricerca con le Università Statale e Cattolica di Milano e via elencando.
Tutto questo è finito. I cavalli sono stati trasferiti a Zanica presso il Centro Ippico La Rosa Bianca di Giuseppe Sanna. Lì potranno continuare a svolgere la loro opera lavorando sul disagio delle persone, soprattutto giovani. Un’opera di prevenzione perché, ne siamo tutti consapevoli, dietro alcuni atti delinquenziali c’è un profondo disagio mentale o una totale mancanza di empatia. A settembre quindi si riparte, ma inutile negarlo, non sarà più la stessa cosa.
Quanto però è accaduto a Bollate non può andare disperso. Per questo la redazione di Cavallo2000 ha chiesto a Claudio Villa di raccontarci fatti e storie di uomini e cavalli che in questi 14 anni si sono incontrati all’interno delle mura del carcere. Qualcuno ha detto che Il passato è come una lampada posta all’ingresso del futuro: conoscerlo è fondamentale perché è di quel progetto di speranza che uomini è cavalli hanno bisogno.